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martedì 1 dicembre 2015

Giuliano Poletti, mascotte e testa d'ariete

Il ministro Poletti parla degli inconvenienti del liberismo, dell'arte di indorare la pillola e della bella morte del lavoratore, e chiarisce il senso di alcune sue dichiarazioni che hanno fatto molto discutere.

Intervistatore: Lei si presenta un po', se mi passa l'espressione, come la mascotte del governo, e della mascotte, se mi passa pure l'opinione, ha anche le physique du role, eppure dietro questa immagine rassicurante molti vedono in lei una specie di testa d'ariete del governo. Ci vuol dire come stanno le cose? 
Poletti: Se intende il fatto di farmi spesso interprete delle esigenze di cambiamento, sono d'accordo con lei, sebbene l'espressione testa d'ariete mi sembra un po' eccessiva. Io direi piuttosto che cerco di svolgere un ruolo di avanguardia, di stimolo verso il cambiamento.
I: Vabbe', non sarà una testa d'ariete, ma i suoi colpi sono pesanti lo stesso, e soprattutto vanno sempre a battere nello stesso punto, cioè i lavoratori.
P: Sarò onesto, anche perché il contesto me lo consente. Non è che io ce l'abbia con i lavoratori. Io sono figlio di lavoratori e per qualche tempo ho lavorato pure, il problema è che dobbiamo fare i conti con una nuova realtà: la concorrenza dei paesi emergenti.
I: Noi, intesi come i lavoratori?
P: Certo, uso il noi in maniera, per così dire, affettiva, ma intendo loro, i lavoratori.
I: Capisco, e quindi?
P: Quindi bisogna capire che siamo entrati in un'epoca storica nella quale i lavoratori sono destinati a prendere mazzate in testa. Che ci sia un governo di destra o di sinistra, per loro cambia poco, la loro dose di mazzate è comunque assicurata. Tanto vale allora, se non altro per una questione di orgoglio, prenderle dalla propria parte politica piuttosto che dall'altra. Non crede?
I: Mah, io veramente non ne farei una questione di orgoglio, bensì di dolore. Da destra o da sinistra, sempre di mazzate si tratta. Non crede lei, piuttosto, che ci sia modo di evitare queste mazzate?
I: Non se vogliamo conservare i livelli di benessere raggiunti. Purtroppo, ogni sistema ha i suoi inconvenienti. Il liberismo ha immensi benefici, ma pure qualche piccolo inconveniente.
I: Ma lei crede veramente nei benefici del liberismo?
P: Assolutamente sì. Credo che solo il mercato ci possa salvare. Ho talmente fiducia nel mercato che, scusando lespressione, gli lascerei regolare anche il funzionamento delle mie palle.



I: La sua risposta mi sorprende, lei è stato per molti anni segretario del Pci di Imola. Che fine ha fatto il Poletti comunista?
P: Altri tempi, follie giovanili, anche se del mio essere comunista ho conservato il realismo politico, il sapermi adattare alle circostanze che cambiano. 
I: Queste sue riflessioni mi portano a un altro argomento a lei collegato: quello delle cooperative. Negli ultimi mesi hanno occupato spesso le prime pagine dei giornali ma non proprio per opere meritorie. A leggere i numerosi resoconti su tangenti e corruzioni di cui sono state protagoniste, mi è venuto di pormi una domanda. Ma perché continuano a chiamarsi cooperative rosse?
P: Perché discendono dalle antiche cooperative, alcune delle quali risalgono addirittura a fine ottocento..
I: Sì. questo lo so, ma quale legame conservano le cooperative di oggi con quel mondo? 
P: Beh, il nome.
I: E oltre il nome?
P: Le sembra poco conservare il nome per oltre un secolo?
I: Veramente non mi sembra molto. Ma lei, che come presidente delle cooperative era spesso invitato a cene ed eventi vari, non ha mai avuto sentore di che tipo fossero le persone che le stavano accanto?
P: Guardi, non so lei, ma io in una cena di solito faccio attenzione a ciò che ti mettono nel piatto, non sto a chiedere la carta didentità ai commensali.
I: E nelle assemblee?
P: Beh, nelle assemblee... purtroppo le assemblee hanno l'inconveniente di svolgersi tra un pranzo e una cena, e ci scappa sempre il pisolino. E quando sono di mattina, ci sono i postumi della sera precedente. Insomma, non è facile capire chi ti siede accanto.
I: Veniamo al jobs act. Alla luce di quanto ci ha appena detto, sembra trovare conferma l'idea che si tratti dell'ennesima mazzata assestata ai lavoratori. Allora, viene da chiedersi, in che senso il governo ha parlato di un cambiamento epocale?
P: Le spiego. Purtroppo, come lei sa, i nostri margini di manovra all'interno dell'Unione Europea sono estremamente limitati. Diciamo che possiamo solo indorare la pillola, o, se preferisce, la mazzata.
I: Dunque, conferma la natura del provvedimento?
P: Detto in maniera bruta, sì. Però mi lasci aggiungere che nell'indorare la pillola abbiamo fatto un gran lavoro. Immagini quale frustrazione ne sarebbe derivata per il lavoratore se avessimo chiamato il provvedimento col suo nome proprio: Schiavitù 2.0. Invece abbiamo trovato un'espressione moderna: jobs act. Immagini come si possa sentire il lavoratore che trova sul proprio contratto la parola sopruso, invece noi lo abbiamo chiamato demansionamento. E ancora abbiamo abolito ogni discriminazione, ora i datori di lavoro che vogliono discriminare qualcuno possono dire che si tratta di una motivazione economica. Me lo lasci dire senza falsa modestia, abbiamo fatto un gran lavoro, il massimo che i lavoratori potessero sperare.
I. Capisco. Negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la sua idea di rivedere il rapporto salario/lavoro svincolandolo dall'elemento temporale. Non le sembra in questo caso di avere esagerato?
P: No, non penso, perché tante grandi imprese dell'umanità mi danno ragione. Facciamo l'esempio delle piramidi, pensi se gli schiavi avessero lavorato a cottimo.
I: Cosa ci sarebbe da pensare?
P: Più motivazione, dunque maggiore produttività. Avrebbero fatto più piramidi, sarebbero stati più gratificati loro e più ricco il paese...
I: Ma forse sarebbero anche schiattati un po' prima e ci sarebbero stati più incidenti sul lavoro.
P: Anche su questa terminologia dobbiamo lavorare se vogliamo modernizzare la società. Schiattare, incidenti sul lavoro... sono parole che appartengono a un mondo ormai superato e nuocciono all'immagine del lavoro moderno. Penso che per chi perisce in un cantiere o schiacciato dai macchinari di una fabbrica vadano adottate nuove formule che esaltino l'abnegazione del lavoratore. La formula appropriata sarebbe: la bella morte. L'immagine del lavoro ne guadagnerebbe non poco se quando un operaio muore sul cantiere dicessimo: ha trovato la bella morte. E anche la famiglia ne trarrebbe motivo di orgoglio, un po' come succede per l'attore che muore sulla scena o per il soldato che si sacrifica per la patria.
I: E se invece rimane solo invalido?
P: Beh, in quel caso diremo che ha cercato la bella morte mancandola di un soffio, senza per ciò nulla togliere al suo coraggio.
I: Un'altra delle sue ultime uscite che ha fatto molto discutere è quella sull'università. Ma lei lo sa che l'università dura cinque anni e che in Italia un giovane finisce le scuole superiori a 19 anni?
P: Sì, ne sono al corrente.
I: E dunque quanti ragazzi pensa potrebbero laurearsi in due anni? Un paio di geni, al massimo.
P: Sì, ma se l'ho detto è perché il mercato del lavoro non può accoglierne di più.

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